FONDAZIONE HA.REA ONLUS
Le famiglie con disabilità secondo Tillo Nocera
Intervista a Salvatore Nocera di Giorgio Genta
Anche quella di Salvatore “Tillo” Nocera – vera “memoria storica” degli ultimi cinquant’anni, in àmbito di inclusione scolastica e di associazionismo delle persone con disabilità – è una famiglia con disabilità e questa lunga chiacchierata con il vicepresidente della FISH dà ulteriore e pregiata sostanza alla nostra rubrica “La famiglia con disabilità. Viaggi nella società inclusiva”
Salvatore “Tillo” Nocera al microfono durante un convegno, a fianco di Pietro Barbieri, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap)
Spiegare alle famiglie con
disabilità chi è Salvatore “Tillo” Nocera è un po’ come dire ai pesci
dov’è il mare: lo sanno da sempre. Nocera, infatti, accompagna, consiglia e
protegge l’integrazione scolastica di qualità delle nostre ragazze e dei nostri
ragazzi da quando abbiamo memoria.
Ma parlare di Nocera solo sotto questo aspetto è troppo riduttivo. Vediamo
dunque di scoprirne altri pregi segreti.
Raccontaci un po’ della
tua infanzia, caro Tillo, e di quando sono iniziati i tuoi problemi con la
vista.
«All’età di 4 anni ho cominciato a vedere male e nel giro di pochissimo ho
perduto la vista all’occhio destro, mentre si riduceva notevolmente quella
dell’occhio sinistro. I miei genitori mi portarono a Roma dal primario della
Clinica Oculistica del Policlinico Umberto I professor Cavara, ma non ci fu
nulla da fare per l’occhio destro e si cercò di bloccare la progressiva
riduzione all’occhio sinistro, ritenuta un’incipiente cataratta favorita da uno
stato generale di debolezza. Mi furono prescritte cure a base di mercurio, da
spalmare sotto le piante dei piedi la sera e aria di montagna… Pur essendoci già
la guerra, la mia famiglia tornò in Sicilia e ripartì per Soprabolzano, dove
rimanemmo sino a quando cominciarono i rastrellamenti tedeschi; allora ci
spostammo a Pallanza sul Lago Maggiore. Lì frequentai la scuola materna con
molto ritardo, sino all’età di 8 anni, quando, nel 1945, finita la guerra,
potemmo far ritorno a Gela».
Com’era, all’epoca, il
rapporto tra disabilità, scuola e poi università?
«Alla fine degli Anni Quaranta a Gela non c’erano mai stati alunni
minorati della vista o con altre disabilità (tranne che con difficoltà di
deambulazione) nelle scuole. La mia famiglia – non volendomi mandare
all’Istituto per Ciechi di Catania – decise di provvedere per l’istruzione
domestica e così ho studiato per le quattro classi elementari a casa con una
maestra e ho sostenuto gli esami di quinta elementare come privatista. Nel ’49,
poi, mi sono iscritto e ho frequentato la Scuola Media Statale a Gela, con molta
collaborazione da parte dei miei docenti e dei compagni, in classi allora poco
numerose, che hanno certamente facilitato l’assistenza didattica da parte dei
docenti e la socializzazione e l’instaurarsi di seri rapporti amicali coi
compagni.
Successivamente ho frequentato il Liceo Classico e ho preso la maturità senza
particolari problemi grazie ai miei insegnanti (all’epoca non erano
specializzati, ma avevano una buona professionalità) e ai miei compagni che mi
aiutavano a prendere appunti a scuola e nei compiti a casa. Parimenti
all’Università, alla Sapienza a Roma, ove mi sono laureato con lode nel ’61».
Terminati gli studi quali
difficoltà hai incontrato nel mondo del lavoro?
«Il mio lavoro è stato dapprima come assistente volontario all’Università – ove
ho avuto la fortuna di avere come colleghi di ruolo personalità come Rodotà e
Lipari – e qui non ho avuto alcun problema nello svolgere esercitazioni orali e
nel condurre esami insieme con un collega, il quale provvedeva a chiamare per
nome i candidati e a scrivere sul verbalino e sul libretto i voti dell’esito.
Quanto allo studio, in parte leggevo molto lentamente con un occhialone
telescopico e in parte leggevano per me amici, familiari e una persona pagata
per farlo.
Un’altra immagine di Nocera
Quando ho cominciato a
insegnare nelle scuole, nel ’64, non ho avuto grandi problemi; allora vedevo un
po’ e riuscivo a tracciare grafici di economia alla lavagna, mentre per le
lezioni di diritto avevo imparato a memoria il numero degli articoli
fondamentali del Codice e li indicavo agli alunni perché li leggessero ad alta
voce per tutta la classe.
Quanto al registro, lo facevo gestire dagli alunni, sia per segnare le assenze
che per gli argomenti delle lezioni, e pure per i voti; per questi, però, avevo
preso la precauzione di registrarmeli su un magnetofono tascabile. La cosa di
far gestire il registro piacque molto ai ragazzi e mi servì molto per
aiutarli ad auto valutarsi, dal momento che conoscevano il voto da me assegnato.
Quando nei primi Anni Ottanta andai come comandato al Ministero, trovai nei miei
colleghi di lavoro piena collaborazione quando si trattava di scrivere qualche
nota o risposte a quesiti; in buona parte lavoravo col telefono. Allora non si
usava ancora il computer. Memorizzavo sempre gli estremi della normativa
legislativa e amministrativa, relativa ai singoli argomenti e ciò mi serviva per
le risposte scritte od orali e mi dava molto credito presso i colleghi, che
sempre più spesso si rivolgevano a me per avere le indicazioni immediate di
testi normativi. Divenni presto la “memoria storica” dell’ufficio, malgrado il
cambiare dei colleghi, dei dirigenti e della normativa. Fui quindi sempre più
frequentemente mandato in giro per l’Italia a convegni e seminari sulla
normativa per l’inclusione degli alunni con disabilità, in rappresentanza
dell’ufficio e quale esponente del Ministero agli esami dei corsi di
specializzazione per il sostegno».
Siamo “famiglie con
disabilità”. Come e quando hai formato la tua?
«Mi sono sposato nel ’67, appena vinto il concorso nella scuola. Avevo
conosciuto meno di un anno prima mia moglie che, venuta dal Friuli Venezia
Giulia, studiava Lettere a Roma. Ci siamo conosciuti tramite una signora che
veniva a leggere per mio conto a casa e abbiamo deciso di sposarci dopo sei mesi
di fidanzamento, poiché ci vedevamo tutti i giorni e discutevamo del nostro
futuro. Il nostro matrimonio è sempre stato caratterizzato da un rapporto
“alla pari”, nel rispetto delle professioni specifiche (mia moglie è
insegnate di lettere) e nella condivisione degli interessi comuni.
Abbiamo una figlia che, divenuta grande, mi ha molto aiutato al computer, quando
c’era da effettuare un’operazione difficilmente realizzabile con la sintesi
vocale o quando c’erano da eliminare errori provocati da me, con l’uso di tasti
sbagliati. Mia figlia ha sempre avuto una grande pazienza, ma non ha alcun
timore di ribellarsi, se si accorge che sto abusando del suo tempo, specie
quando potrei lavorare da solo con la sintesi vocale. Il mio nipotino, poi,
inizia a contendermi il computer per i suoi giochi!».
Come è nato il tuo
rapporto con l’associazionismo?
«Iniziai iscrivendomi al Movimento Apostolico Ciechi (MAC),
un’associazione mista di non vedenti e vedenti, diventandone poi presidente e
nella quale riuscii a far prevalere la cultura dell’inclusione e
dell’integrazione scolastica.
Luciano Tavazza, fondatore del Mo.VI. (Movimento di Volontariato Italiano)
A seguito di frequenti
contatti con altre associazioni, venni a conoscenza delle problematiche legate
ad altre forme di disabilità; animato dallo spirito del volontariato che mi era
stato inculcato da amici carissimi, come Luciano Tavazza, fondatore del
Movimento di Volontariato Italiano e monsignor Giovanni Nervo, uno dei
fondatori della Caritas Italiana e della Fondazione Zancan di Padova, mi sono
dedicato alla FISH (Federazione Italiana per il Superamento
dell’Handicap), soprattutto da quando sono pensionato e ho maggior tempo
disponibile.
Il periodo trascorso al Ministero, dall’inizio degli Anni Ottanta al 2000,
durante il quale mi sono occupato della normativa relativa all’inclusione
scolastica, mi è stato poi utilissimo per il lavoro nelle associazioni. Proseguo
poi la mia attività nell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down), ove
sono consulente giuridico, e nella pubblicazione di numerosissimi studi e
monografie, scritti grazie al sistema di sintesi vocale collegato al computer,
messo a punto da un amico carissimo nonché collega avvocato divenuto cieco,
Giulio Nardone, presidente dell’ADV (Associazione Disabili Visivi)».
Com’era la FISH “da
bambina”?
«Durante la “gestazione”, la FISH era una cosa informe e molto sfuggente.
Ricordo di interminabili discussioni tra rappresentanti di associazioni che non
si conoscevano, si insultavano, cercavano di prevaricare gli uni sugli altri e
via così. Il dialogo si protraeva talora anche sino a notte fonda, per chiarirci
le finalità e formulare gli articoli dello Statuto.
Per mia natura sono abituato a dialogare con tutti, anche con chi la
pensa al contrario di me e talora sono riuscito a mediare tra posizioni
contrapposte. Ci abbiamo messo circa un anno, ma ce l’abbiamo fatta e la FISH è
partita nel ’94. In essa io non rappresentavo alcuna associazione di persone con
disabilità, ma il Movimento di Volontariato Italiano (Mo.VI.), il cui
spirito informatore di servizio e superamento di ogni interesse di parte mi ha
aiutato moltissimo a contribuire a creare un clima di dialogo, mediazione e
soluzioni concrete».
E il tuo rapporto con il
potere? Una volte si diceva che “il potere corrompe”, anche se personalmente
credo che a corrompere sia il potere senza adeguati controlli. Come hai fatto a
mantenerti “puro di cuore” dopo tanta frequentazione di Ministri e Ministeri?
«Fortunatamente non ho mai gestito il potere. Quando ero Presidente del
Movimento Apostolico Ciechi, avevo imparato che nelle associazioni di persone
con disabilità bisogna evitare il rischio, assai diffuso, dell’identificare
la presidenza con l’associazione. Per questo avevo avuto dei problemi ad
inserirmi nell’UIC, l’allora Unione Italiana dei Ciechi, oggi UICI (Unione
Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti). E quindi nel MAC ho voluto che il
Consiglio Nazionale collaborasse pienamente nelle decisioni da assumere. Poi,
nelle associazioni cattoliche, noi laici gestiamo poco potere, perché c’è la
presenza dell’assistente ecclesiastico che condiziona molto il potere dei
dirigenti laici. Nella FISH, infine, il potere gestionale è fortunatamente
ripartito tra i membri del Direttivo Nazionale.
Quanto ai rapporti con i Ministri, debbo dire che non ne ho mai avuti. Ho
sempre avuto contatti anche stabili coi Sottosegretari che di volta in volta
avevano la delega per l’inclusione scolastica, ma i miei rapporti migliori e più
proficui li ho avuto sempre con i dirigenti e i funzionari del Ministero, perché
erano competenti nella loro materia e quindi ci si intendeva con facilità, anche
quando si era su posizioni diverse. Ho serbato un ottimo ricordo di tantissimi
funzionari e continuo a mantenere ottimi rapporti con gli attuali dirigenti
Monsignor Giovanni Nervo fu tra i fondatori della Caritas Italiana e creò a Padova la Fondazione Zancan
L’unico rapporto con un uomo
di potere al Ministero è stato col Capo di Gabinetto del ministro Luigi
Berlinguer nel ’99: si trattava del direttore generale Giovanni Trainito,
che però da giovane era stato mio compagno di scuola dalla Scuola Media al Liceo
di Gela e quindi ci conoscevamo benissimo, e ritengo che se la normativa
ministeriale degli Anni Ottanta e Novanta è di buona fattura non solo formale,
lo si debba anche alla sua esperienza di mio compagno di banco e di studio
pomeridiano e di amico fraterno.
Anche la Medaglia d’Oro assegnatami dal presidente della Repubblica Ciampi nel
2003 è frutto della stima mostratami da un Direttore Generale, che mi aveva
conosciuto subito dopo il mio pensionamento, durante le mie reiterate
frequentazioni e discussioni ministeriali».
Hai un augurio o una
raccomandazione per le nostre famiglie?
«Ho conosciuto tantissime famiglie in questi miei lunghi anni di lavoro al
Ministero e con le associazioni! E continuo ad avere rapporti con molte di loro
tramite il sito da me curato presso l’AIPD.
Una raccomandazione che rivolgo è che non pretendano dai loro figlioli più di
quanto essi possano dare. È bene spronare i nostri ragazzi a fare sempre
meglio e di più; però mi capita di assistere impotente a casi in cui le famiglie
di ragazzi con gravi disabilità intellettive pretendono che essi facciano
sacrifici enormi per poter ottenere il diploma di maturità. Ritengo che ciò sia
più una comprensibile – ma non giustificabile – aspettativa delle famiglie, che
però non rispetta le aspirazioni dei figlioli, che più che a competere con altri
o ad avere dei diplomi, desiderano avere una vita serena e dei
riconoscimenti affettivi e personali, più che titoli legali, poi
praticamente inutilizzabili ai fini del lavoro.
Altra raccomandazione che mi permetto dare alle famiglie è di non insistere a
trattenere i loro figli – specie con disabilità intellettive e relazionali –
per uno o più anni nell’ultimo anno della scuola dell’infanzia o della scuola
primaria o secondaria di primo e secondo grado, con la sbagliata convinzione che
così possano meglio crescere psicologicamente e intellettivamente per poter
stare meglio con compagni più piccoli di loro e quindi erroneamente creduti più
simili ai loro figli.
Questo è sbagliato, poiché per quanto si possano tenere più a lungo i figli
nello stesso ordine di scuola, mai essi potranno raggiungere l’età evolutiva dei
compagni, mentre involontariamente essi si trovano in difficoltà con compagni
più piccoli che non comprendono i loro comportamenti incontrollati, specie
in età puberale, cosa che crea spesso problemi affettivi e sessuali quando
arrivano alla scuola media.
Un augurio, infine, che posso rivolgere alle famiglie è di avere servizi
pubblici e privati convenzionati territoriali che le sostengano a gestire in
modo sereno il progetto di vita dei loro figlioli, evitando di diventare schiavi
degli stessi, sempre più gravate da un carico di caregiver insostenibile.
L’inclusione è una scelta coraggiosa che però non può e deve gravare solo sulla
famiglia, ma dev’essere condivisa culturalmente e politicamente dalla società».
Luigi Berlinguer è stato ministro della Pubblica Istruzione dal 1996 al 2000
In chiusura di questa
intervista, mi permetto – in forza di un’antica e ben collaudata amicizia con
Tillo Nocera – di raccontare un piccolo aneddoto.
Parecchi anni fa egli venne da noi in Liguria, per una conferenza sulle
consuete tematiche che ci riguardano nella scuola: arrivò in treno-cuccetta al
mattino, lo andai a prendere alla stazione (punto di incontro raccomandato
“sotto l’orologio”, ma riuscii al prelevarlo “al volo” alla discesa del vagone).
Brillante conferenza a Finale Ligure, poi delizioso pranzo con trenette al
pesto, branzino con carciofi, pochi formaggi, un po’ di dolce e una o forse due
bottiglie di Vermentino (ma eravamo in tre!). Poi il caffè.
Tillo espresse quindi il desiderio di visitare a Savona l’allora inaugurando
Centro di Documentazione sull’Handicap e pertanto velocemente colà ci recammo.
La visita fu breve perché nel pomeriggio era previsto un altro impegno a Loano.
Niente cena per sveltire un po’ la decantazione intestinale del Vermentino,
quindi due chiacchiere a casa mia, in attesa del treno delle 23.30 per Roma.
Pioveva leggermente e un’insolita nebbiolina avvolgeva ogni cosa all’arrivo del
treno. Mentre io dormivo letteralmente in piedi, Tillo era vispissimo e seguiva
per radio il resoconto dei lavori parlamentari. Scena finale da film: il treno
si ferma (nella nebbia) con grande stridore, si apre sbattendo una porta, due
grandissime braccia si protendono fuori del vagone (era un addetto erculeo?) e
con un educatissimo «Buona sera, avvocato!», sollevano Tillo e l’inseparabile
trolley e lo depongono delicatamente all’interno. Tillo mi saluta con la mano e
io resto a domandarmi se dormivo o se ero sveglio!
8 maggio 2013
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