FONDAZIONE HA.REA ONLUS
La famiglia con disabilità “a lezione” da Andrea Canevaro
Intervista ad Andrea Canevaro di Giorgio Genta
È Andrea Canevaro, studioso di prestigio internazionale, da sempre impegnato sul fronte dell’inclusione scolastica, il protagonista del nuovo “viaggio nella società inclusiva” di Giorgio Genta, con le “famiglie con disabilità” particolarmente attente a questa intervista rilasciata in esclusiva al nostro giornale, vera e propria “lectio magistralis” su tanti temi a loro cari
Andrea Canevaro, pedagogista dell’Università di Bologna, è uno dei principali studiosi italiani da sempre impegnati sul fronte dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità
È assai difficile definire
il professor Andrea Canevaro utilizzando poche parole. Potremmo
azzardarne alcune, focalizzando quelle che le famiglie con disabilità collegano
alla sua persona: Università, Bologna, pedagogia speciale e
pedagogia istituzionale, integrazione degli alunni con disabilità.
I “più informati” probabilmente aggiungerebbero anche Sergio Neri [1937-2000,
uno dei “padri” dell’inclusione scolastica in Italia, N.d.R.], Célestin
Freinet [pedagogista ed educatore francese, 1896-1966, N.d.R.], la
Francia degli Anni Cinquanta e Sessanta, l’educazione cooperativa e
istituzionale.
Per saperne di più e meglio, leggiamo insieme questa sua breve “lectio
magistralis” in forma di intervista, sulle tematiche a noi più care.
Dato che non siamo stati
in grado di “identificarti” con poche parole, vorresti indicarne quattro o
cinque che per te hanno avuto e hanno il maggior peso? Il problema, infatti, è
presentarti a “chi non ti conosce”, ammesso che esista tale persona…
«Ecco le parole che mi sono care, e che sono semplici – non amo il gergo, più o
meno scientifico, anche se a volte siamo tutti nella necessità di servircene -:
incontri, percorsi, accompagnare, progettare,
ricordare (questa ultima parola mi piace solo se ci sono le altre…). Ma
ognuna di esse ne trasporta altre, formando dei “trenini di parole”. Così
incontri porta con sé mediatori, che porta controllo, che
porta originalità, che porta identità, che porta pluralità,
che porta… Non si finisce mai!».
Potresti spiegarcele,
come faresti con degli studenti non tanto brillanti? (Il tentativo “sarebbe”
quello di racchiudere il tuo percorso professionale e/o umano in poche righe.
Impresa praticamente impossibile… ma tu provaci, se vuoi!)
«Accetto la proposta. Ma non tanto pensando a chi sembra essere non tanto
brillante. Penso a tutte e tutti. E penso che ciascuno capisce quelle
parole se può viverle e riflettere insieme al loro significato incorporato.
Ciascuno è certamente un incontro.
Ho preso l’abitudine di domandare a chi è studente quale sia stata la prima
persona handicappata che ha incontrato e che cosa ne sappia oggi. In questo modo
incontro significa scoprire, o leggere, quello che non sapevi e non ti
aspettavi. Nascono i percorsi fra quello che ritengo di conoscere io –
docente – e quello che conosce chi conosce la propria nonna che abbia avuto un
ictus o la propria sorella con sindrome di Down… Possiamo e dobbiamo tentare di
accompagnare o accompagnarci su questo percorso. Per imparare,
insieme, ad andare oltre, a progettare. Senza dimenticare, ma cercando di
ricordare da dove siamo partiti. Queste parole le viviamo conoscendoci
e conoscendo.
Se il tema su cui ci impegnamo per aumentare le nostre conoscenze è la Pedagogia
Speciale, e quindi riguarda chi ha Bisogni Speciali, è utile scoprire che
ciascuno di noi ne sa già qualcosa, ed è nello stesso tempo soggetto che
conosce e oggetto del conoscere. Queste conoscenze non hanno alla base
un’epistemologia già costituita, ma vivono un continuo farsi epistemologico.
Cioè un’epistemologia sperimentale. Forse la parola epistemologia risulta
misteriosa a qualcuno. Ma esistono i vocabolari; e, più che diventare io un
vocabolario, rimanderei alla loro consultazione, perché diventi un’utile
abitudine…».
Le nostre “famiglie con
disabilità” rivendicano da sempre un ruolo “cooperativo” di pari dignità nei
processi abilitativi e riabilitativi dei loro ragazzi (di ambo i generi e di
ogni età anagrafica). Da questo presupposto nasce un rapporto a volte
collaborativo a volte conflittuale con i professionisti dell’area vasta della
disabilità. Qual è il tuo pensiero al riguardo?
«Cercherei di non contrapporre collaborazione e conflitto. È positivo che
vi siano esigenze differenti, conoscenze differenti, insomma differenze.
Perderemmo qualcosa se cercassimo di stabilire a priori che qualcuno, magari
specialista, ha sempre ragione, e che il suo sapere è già completo. Sergio
Neri una volta aveva detto che «una buona diagnosi non deve essere troppo
levigata»: non saprebbe accogliere le conoscenze e le aspirazioni di chi è
protagonista reale della stessa diagnosi e delle persone che ne costituiscono il
contorno di ogni giorno.
Abbiamo bisogno di tecnici capaci di leggere non ciò che manca, ma di
capire quali sono i punti “vivi” sui quali poter costruire un progetto
comune. Bisogno di “diagnosi in avanti”; non serve un giudizio. E questo è
possibile in una collaborazione che sappia vivere anche qualche conflitto…
Il rischio della conflittualità è legato all’improprietà che può esserci
nelle relazioni istituzionali e personali: ad esempio, parlare all’educatore per
ottenere dal funzionario; o all’educatore per parlare al direttore didattico;
cercare di ottenere una funzione amministrativa presentandola come educativa. È
bene collegare i due aspetti facendoli diventare alleati e non
confondendoli.
È certamente utile cercare di capire quale può essere il ruolo delle procedure e
avere l’intelligenza e l’attenzione di chiedere a chi sa: conoscendo il
funzionamento di un sistema, possiamo infatti essere capaci di collegare le
conoscenze dei vari settori di un’organizzazione complessa.
È un elemento importante che caratterizza la capacità di collaborare per le
funzioni e per le competenze, evitando quelle situazioni “morbide”, poco
chiare, in cui più che la collaborazione per le competenze si creano delle
complicità. Non complicità, parola che mantiene qualche elemento di ambiguità
poco felice, ma collaborazione per le competenze. La conseguenza è una minore
attribuzione di peso alle dimensioni del carattere, della personalità nelle
collaborazioni, ma più alla capacità di poter rispondere alle esigenze di
funzionamento di un’istituzione. E questo mette la responsabilità istituzionale
al servizio del progetto, senza far sì che l’ansia della realizzazione trascuri
le procedure istituzionali. Paradossalmente, finisce per migliorare anche gli
aspetti relazionali.
Posso dire, citando lo scrittore israeliano Amos Oz, che vivo in un paese
– Pedagogia Speciale – dove ci sono molte più domande che risposte. Non
perché non abbiamo trovato risposte, ma perché le domande sono inevitabilmente
più delle risposte. Questo è vero nell’amore, nella politica, nell’arte, nella
vita personale. È importante imparare a vivere con delle domande aperte.
Rende indispensabili gli incontri fra diverse conoscenze, fra chi vive una
quotidianità e chi la studia».
Secondo Andrea Canevaro, «le polemiche sui BES (Bisogni Educativi Speciali) sono inevitabili, se non li si legge come cambiamento di una rotta che va, ora, verso la valorizzazione degli insegnanti»
BES ovvero Bisogni
Educativi Speciali. Perché tante polemiche pro e contro? È vero che la virtù sta
sempre nel mezzo?
«Ritengo la vicenda dei BES un importante e positivo cambiamento di direzione.
Rischiavamo di vivere ogni esigenza particolare, o speciale, come necessità di
avere chi disponesse di un titolo specialistico per quell’esigenza. Svalutando,
di fatto, chi ha una professione per l’insegnamento. Che forse ha bisogno di
collaborare con specialisti. Ma non dev’essere svalutato o svalutata,
come se fosse incapace. Una didattica capace di far fronte a esigenze
particolari esiste in molti insegnanti – potrei fare un lungo elenco e lo
allungherei continuamente, perché quasi ogni giorno ne conosco altri e altre -.
Si tratta di non viverli come eccezioni, magari scomode, ma come linee di
tendenza a cui dare credito.
Le polemiche sui BES sono inevitabili, se non li si legge come cambiamento di una rotta che va, ora, verso la valorizzazione degli insegnanti. Questo non vuol dire solitudine. Al contrario: è possibilità di avviare, insieme, un riordino della scuola che permetta di avere classi più contenute, edifici più curati, servizi complementari (dalle biblioteche ai laboratori) più funzionanti e funzionali. Non spendere meno. Spendere meglio. Che poi, nel tempo, è spendere meno».
Studenti con disabilità e
università: diversi nostri ragazzi e le loro famiglie hanno incontrato
difficoltà enormi per proseguire gli studi oltre le secondarie superiori. C’è,
dove e come funziona un concreto progetto di supporto a questo problema?
«La situazione va vista considerando che in università non vi può essere il
rapporto a due che vi è con il “sostegno”. Questo può creare qualche sconcerto.
Lo capisco bene. Ma credo utile illustrare le possibilità che il percorso
universitario può aprire.
Diventa importante il tutorato. Ora, su questo termine “tutore” o
“tutor”, bisogna fare una certa chiarezza. Innanzitutto si può parlare di
tutor junior quando ci riferiamo a quei coetanei, per esempio nell’àmbito
scolastico, che svolgono un compito di guida. La parola “tutore” ha come
traduzione anche il termine “guida”, dal latino tutor tutoris, derivato
da tueri, che significa proteggere, difendere, ma anche guidare, curare,
quindi aver cura di. Anche il coetaneo può svolgere questo compito, quindi avere
un ruolo di guida, e lo fa da coetaneo; ed è quello che chiamo tutor junior.
Vi sono poi delle figure professionali che chiamo tutor senior – seniores
se siamo al plurale – e che hanno compiti di guida più complessa, più duratura.
E ancora, i tutor aziendali che sono i punti di riferimento all’interno
di un’azienda e vi sono poi i tutori sul piano giuridico. La tutela si
esercita per un’indicazione che viene data, per esempio, dal Tribunale.
Riferendomi ai tutor seniores, credo sia utile fare una distinzione – suggerita
da qualche studioso – tra un’attenzione alle funzioni elementari e una
alle funzioni superiori. Vi sono persone che avranno bisogno per un certo
numero di anni – forse anche per tutto il loro percorso di vita – di avere
qualcuno che le guidi appunto nelle funzioni elementari che fanno parte
dell’organizzazione quotidiana e che diventano anche la possibilità di
percezione-azione, di reazioni nel contesto, di capacità corporee, di igiene
ecc., di organizzazione del tempo della giornata quotidiana. Vi sono invece
persone che hanno bisogno di questo in una misura molto modesta e necessitano
soprattutto di un’attenzione alle funzioni più elaborate, che chiamiamo
funzioni superiori. Hanno quindi bisogno di organizzare periodicamente la
comprensione di quello che sta accadendo loro, di capire gli aspetti sociali
della loro attività – le cognizioni sociali -, di comprendere le opportunità che
possono avere, di fare assieme al tutor senior delle esplorazioni ipotetiche; di
ricordare, ad esempio, che gli anni passano, che non hanno più la stessa
età che avevano quando è cominciato un certo lavoro, un certo percorso, e di
avere quindi le informazioni, i ragionamenti, la razionalizzazione della loro
vita, e della vita dei loro cari, del loro gruppo familiare, perché ci sia
sempre una presenza costante non realizzata attraverso introspezione e
intrasoggettività, ma più intersoggettiva. Tutto questo è possibile farlo
con una persona che segua costantemente: il tutor senior.
Queste indicazioni ci fanno capire come il tutorato possa avere delle
organizzazioni costanti di accompagnamento e quest’ultimo ha luogo
attraverso una composizione continua di istanze istituzionali, di collegamenti
tra le istituzioni in cui le diverse istituzioni devono compiere il loro dovere,
in cui è difficile ragionare nella logica della sussidiarietà perché è
troppo giovane come termine e quindi rischia di essere preso come una parola che
significa confusione più che possibilità di congiuntura delle azioni
istituzionali che tengono conto della realtà del momento di ogni istituzione. E,
soprattutto, nel rapporto tra le varie istituzioni, vi è una pervasività del
linguaggio economico che rischia di essere assunto come l’unico che
interessa».
«Si tratta di non ritenere – afferma Canevaro – che si possa realizzare la prospettiva inclusiva unicamente con le leggi, ma anche grazie a quelle»
Le famiglie e gli
studenti con disabilità “ricorrenti” ottengono sempre più frequentemente
giustizia in tribunale nel campo vasto dell’istruzione. Quando e se mai non sarà
più necessario ricorrere ai tribunali per l’affermazione di questo diritto?
«Noi, nella nostra storia recente, abbiamo avviato un processo umanizzante che
si realizza attraverso il riconoscimento dell’originalità (diversità) di
ciascuno e la sua valorizzazione. Il valore dell’unicità di ogni individuo ha
come conseguenza che, pur non essendo uguali, siamo tutti titolari di uguali
diritti. Il nostro compito è quello di entrare in contatto con le persone
speciali e aiutare a rivelarle all’umanità.
Come in tanti percorsi delle nostre vicende, dobbiamo certo fondare i nostri
comportamenti sulle nostre convinzioni e la nostra coscienza. Ma sapendo che
tanto le convinzioni che la coscienza possono avere momenti, diciamo così, di
eclissi, di indebolimento. Per questo ci sono le leggi che permettono di
fermare eventuali cadute le quali potrebbero avere le caratteristiche
dell’irreversibilità.
Si tratta di non ritenere che si possa realizzare la prospettiva inclusiva
unicamente con le leggi. Ma anche grazie a quelle. L’integrazione non si
fa con i carabinieri. Ma i carabinieri, se qualcuno va contro le leggi, fanno il
loro dovere».
Veniamo alla figura
dell’insegnante, dell’educatore. Come credi sia possibile restituire dignità a
questa figura così emblematica, in modo che poi sia in grado di trasmettere
questa dignità ai suoi studenti, con o senza disabilità?
«Chiedo scusa, e utilizzo una parolaccia: alloparentale. Richiama il
fatto dell’importanza che – nell’educazione di chi cresce – vi sia un’ampia
partecipazione di persone che non sono i genitori biologici. Appunto l’alloparentalità.
Accade che chi ha Bisogni Speciali risulti fortemente vincolato all’educazione
esclusivamente parentale. E a volte questo vincolo risulta anche rinforzato da
riferimenti a specialisti che insistono – forti di un ruolo ritenuto
indiscutibile – sul coinvolgimento esclusivo dei genitori. Anche la presenza di
un operatore educatore potrebbe rinforzare il vincolo genitoriale. Perché questa
persona potrebbe essere a sua volta prigioniera del vincolo genitoriale, che
risulterebbe così anche più forte.
Mi sembra utile indicare alcuni punti, e in seguito riprendere lo specifico
della domanda:
La qualità del tempo: la presenza in un contesto familiare di un bambino
o di una bambina in situazioni di handicap può cambiare il tempo, la sua
organizzazione e la sua qualità, nei componenti del contesto, e in particolare
in alcuni ruoli. Vi può essere un cambiamento nel segno negativo e della
rinuncia – non possono più essere fatte molte attività, vedere certi amici con
cui si facevano certe attività, andare al cinema, andare in vacanza… E vi può
essere un cambiamento nel segno del dovere o anche del sacrificio – si devono
fare certe attività, informarsi di certe cose, visitare certi luoghi…
L’appartenenza: la presenza di un bambino o di una bambina in situazione
di handicap può rompere qualcosa che chiamiamo “appartenenza”. «Facevamo parte
di una realtà sociale, di un gruppo di amici. Poi, con la nascita di Franca, non
li abbiamo più visti». Il contatto con altre persone, altre famiglie che vivono
la situazione di handicap, fa realizzare una nuova e diversa appartenenza.
La categorizzazione: i rischi della nuova appartenenza sono quelli delle
categorie e delle categorizzazioni. Cosa vuol dire? Privilegiare o anche rendere
assoluto il tipo di disabilità o di deficit come unico elemento su cui fondare
la propria identità, rinunciando alla pluralità di elementi che è presente e
propria di ogni identità. La categoria può far credere che l’unica comprensione
vera sia esclusivamente all’interno di questa specifica e particolare
appartenenza.
La “situazione di handicap” come contesto: la dizione “situazione di
handicap” vuole prendere in considerazione un contesto e i suoi diversi
protagonisti. Non, quindi, esclusivamente il soggetto handicappato, ma anche i
soggetti coinvolti nel contesto. Questo significa che un processo riabilitativo
ed educativo non può fare esclusivo riferimento al soggetto handicappato, ma
deve ampliare il suo angolo d’intervento e prendere in considerazione i bisogni
dei diversi soggetti e le loro possibilità di valorizzazione.
La valorizzazione dei ruoli: attorno a una situazione di handicap è bene
chiarire quali professioni possono collocarsi, con quale specificità di
contributo. Il quadro delle professioni d’aiuto non può essere lasciato
all’intuizione o essere ritenuto scontato. Va chiarito e precisato volta per
volta. Più questo quadro è chiaro, più possono essere valorizzate le competenze
dei ruoli sociali, familiari, amicali, di volontariato.
La valorizzazione del tempo: la valorizzazione del tempo è corrispondente
alla valorizzazione dei ruoli. Se il tempo di un familiare – ad esempio – è
completamente occupato dall’assistenza materiale, la valorizzazione è scarsa. Il
nostro compito è quello di aprire la possibilità ad altre occupazioni, altri
interessi.
Questi punti, nelle mie intenzioni, contengono la valorizzazione
dell’insegnante. Come dell’educatore. E si riassumono nella
parolaccia alloparentalità. Che può richiamare le vicende di un bambino
che ebbe poi una storia molto speciale. La sua educazione alloparentale
iniziò appena venne al mondo, grazie a un bue e un asino…».
Un grazie sentito ad Andrea Canevaro da parte delle sue “studentesse più attente”: le nostre famiglie con disabilità. E anche da parte del “mulo da soma”, simbolo dei caregiver familiari, che si sente nobilitato egli stesso dall’“alloparentalità” conferita a suo cugino, l’asinello evangelico.
22 luglio 2013
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